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(DL) IL DIPENDENTE CHE VENDE AZIONI DELLA SOCIETA’ DATRICE DI LAVORO A UN’AZIENDA CONCORRENTE NON VIENE MENO AL DOVERE DI FEDELTA’ (Cassazione Sezione Lavoro n. 2474 del 1 febbraio 2008)
La fattispecie in esame riguarda un dipendente di una società per azioni, con la qualifica di impiegato di prima categoria, che ha acquistato il 25% delle azioni della sua datrice di lavoro e le ha rivendute a due finanziarie facente capo ad altra società.
Egli è stato licenziato con l’addebito di violazione del dovere di fedeltà previsto dall’art. 2105 cod. civ., per avere consentito l’ingresso di una concorrente nella società datrice di lavoro.
Il lavoratore ha chiesto al Tribunale di Milano di annullare il licenziamento, sostenendo di non essere venuto meno ai suoi doveri. Secondo l’art. 2105 cod. civ. “il prestatore di lavoro non deve trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l’imprenditore, né divulgare notizie attinenti all’organizzazione e ai metodi di produzione dell’impresa, o farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio.”
Il Tribunale ha rigettato il ricorso affermando che l’operazione svolta dal lavoratore, benché lecita, aveva profili di incompatibilità rispetto al rapporto di lavoro, in quanto la scelta degli acquirenti aveva inciso sull’assetto della società e determinato un contrasto con le finalità perseguite dal socio di maggioranza.
Questa decisione è stata riformata dalla Corte d’Appello di Milano, che ha annullato il licenziamento ordinando la reintegrazione del lavoratore e condannando l’azienda al risarcimento del danno. La Corte ha ritenuto irrilevante che l’operazione svolta dal dipendente contrastasse con le finalità perseguite dal socio di maggioranza. L’azienda ha proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione della Corte di Milano per vizi di motivazione e violazione di legge.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso. Ai fini dell’applicazione del divieto previsto dall’art. 2105 cod. civ. – ha osservato la Corte – la “contrarietà agli interessi del datore di lavoro” (così come la “potenziale lesività”) del comportamento del lavoratore, nel caso del dipendente di una società, deve essere rapportata e commisurata agli interessi del soggetto giuridico società (che si evolvono e si esprimono nei modi e nelle forme ed attraverso gli organi di cui alla legge, all’atto costitutivo e allo statuto) e non agli interessi di un singolo socio (o di un gruppo) pur di maggioranza.
Pertanto legittimamente la Corte di Appello di Milano ha ritenuto che “nessun limite può essere costituito dal fatto che il trasferimento abbia sconvolto l’assetto societario a danno del socio di maggioranza” ed ha concluso in diritto nel senso che “la misura dei poteri, diritti ed obblighi che, nella loro sintesi, costituiscono lo status di socio, si colloca in un ordine diverso rispetto a quelli derivanti dalla qualità di dipendente e la giusta causa che non consente la prosecuzione del rapporto riguarda il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore, e comprende, le condotte, ancorché lecite, o non attinenti al contenuto della prestazione, lesive dell’interesse del datore e a questo antagoniste”.
MG
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