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(DC) IN ASSENZA DEI REQUISITI MINIMI IL RICORSO PER CASSAZIONE E’ INAMMISSIBILE ED IL RICORRENTE E’ CONDANNABILE AI SENSI DELL’ART. 96 C.P.C. (Cass. n. 33720 del 18.10.2019)
La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 33720/2019, ha dichiarato l’inammissibilità del ricorso proposto in assenza dei requisiti minimi richiesti dalla legge condannando il ricorrente al risarcimento di cui all’art. 96 c.p.c.. In particolare, la Corte evidenzia come “un ricorso per cassazione è un atto nel quale si richiede al ricorrente di articolare un ragionamento sillogistico così scandito: (a) quale sia stata la decisione di merito; (b) quale sarebbe dovuta essere la decisione di merito; (c) quale regola a principio sia stato violato, per effetto dello scarto tra decisione pronunciata e decisione attesa”. L’inosservanza di tali requisiti minimi del ricorso, previsti dall’art. 366 c.p.c., ne determina l’inammissibilità per aspecificità, non potendo la Corte rilevare d’ufficio né intuire quale tipo di censura abbia inteso proporre il ricorrente laddove questi esponga in modo oscuro le proprie doglianze. La coerenza dei contenuti e la chiarezza degli atti processuali sono obblighi delle parti che discendono direttamente dal dovere di lealtà di cui all’art. 88 c.p.c.. Orbene, il difetto dei requisiti minimi richiesti dalla legge per l’ammissibilità del ricorso comporta per i Giudici di legittimità l’applicabilità dell’art. 96 c.p.c., al ricorrente.
Ciò in quanto poiché si tratta di requisiti richiesti dalla legge con termini in equivoci; e ripetutamente ribaditi dalla giurisprudenza consolidatissima di questa Corte, deve concludersi che delle due l’una: o il ricorrente (e per lui il suo difensore, del cui operato ovviamente il cliente deve rispondere nei confronti della controparte, ex art. 2049 c.c.) ignorava le suddette norme, ed allora ha agito con colpa grave, trattandosi di ignoranza inescusabile; oppure le conosceva, ed allora ha agito addirittura con mala fede, volutamente disattendendo precetti richiesti a pena di inammissibilità. Il ricorrente ha dunque tenuto un contegno processuale connotato quanto meno da colpa grave, e va di conseguenza condannato d’ufficio, ai sensi dell’art. 96, comma 3, c.p.c., al pagamento in favore della controparte costituita, in aggiunta alle spese di lite, d’una somma equitativamente determinata a titolo di risarcimento del danno”. (AO)